È un fatto indubitabile che noi pensiamo con le parole. La verità è che controlliamo i nostri pensieri, li elaboriamo nel modo migliore, e poi capita che le parole che usiamo smentiscano quei pensieri e facciano trapelare quello che davvero pensiamo, o che non pensiamo con sufficiente attenzione.
Controlliamo il pensiero; ma le parole ci sfuggono. Nelle parole passa molto più che il pensiero, ed è per questo che dobbiamo sempre curarci delle parole.
Ma cosa c’entrano questi argomenti da ‘filosofi’ con la formazione dell’individuo, con il fenomeno educativo? Le parole di cui ci serviamo quando facciamo filosofia dell’educazione fanno trasparire una serie di precomprensioni che tradiscono la nobiltà dei propositi. Continuiamo a pensare la genesi dell’individuo, l’individualità, la persona, a partire da parole antiche.
Formazione / educazione – sono le parole e i modi in cui noi riteniamo inconsapevolmente che si costruisca l’individualità. Ma la storia di queste parole descrive fenomeni che sono del tutto opposti a quelli che la nuova filosofia dell’educazione si è data il compito di diffondere. Spesso si richiama l’attenzione sull’etimo del termine educazione per suggerire che l’educazione debba essere intesa come una forma di spontaneità. Si radica la forma èduco, allevo, nella forma edùco, porto fuori. Nell’ottica di questa etimologia tanto diffusa quanto banale, ormai, si crede di individuare quella spontaneità che si presenta come il cuore dell’educazione. In questa prospettiva, l’educazione consiste nel trarre fuori ciò che è già – ciò che, presente nell’educando, va soltanto reso esplicito.
Nel quadro dell’interpretazione tradizionale di questa etimologia l’educazione sarebbe il luogo della spontaneità, il luogo incontaminato in cui la funzione dell’educatore è limitata a facilitare
la manifestazione di una natura individuale e personale che è lì e che avrebbe solo bisogno di essere portata allo scoperto.
È quasi inutile rilevare quanto questa vulgata sia prossima a quell’idea maieutica per cui si tratterebbe di facilitare, al modo di una levatrice, l’autoproduzione dell’individualità, della persona, dei suoi saperi. Forse, però, le cose non stanno come racconta questa vulgata tanto diffusa quanto poco problematizzata.
Cosa presuppone, infatti, questa tesi? Il suo presupposto è che la natura umana sia fissa, precontenuta nell’educando, e che l’educazione consista nel portare fuori questa natura già predeterminata nella sua fissità. Insomma: che l’educando e l’educatore si trovino subordinati a questa misteriosa entità che sarebbe la natura o essenza dell’uomo quando l’uomo non ha ancòra costruito la sua individualità adulta. Sembrava che l’educazione tendesse alla spontaneità, e invece presupponeva un’origine fissa e stabile. Ma il vocabolario della filosofia dell’educazione – si dirà – include altre parole. Soprattutto una: ‘formazione’. La cosa, qui, è per certi versi ancora più evidente. ‘Formazione’ ha a che fare con il vocabolario metafisico greco. I latini tradurranno questo concetto con formatio, ma soprattutto informatio. Secondo questo lessico, la formazione è il processo in ragione del quale qualcosa di informe, di indeterminato, acquisisce una determinazione formale – una forma, insomma. Nel caso del vocabolario educativo, la situazione è questa: vi è qualcosa che è informe – il discente, l’individuo che si educa o si vuole educare – al quale si attribuisce una forma, si dà una forma. E il soggetto di questo ‘formare’ è l’educatore, il formatore, l’adulto, il docente. La formazione è pensata così sul modello di un processo di determinazione che proviene dall’esterno. È il formatore che conferisce una forma all’educando privo di forma, all’educando inteso come quella sostanza plastica che occorre formare. Questo modello è assai differente da quello che è presupposto nella parola educazione. Si tratta in certa misura del modello opposto. Nel caso dell’educazione, l’intervento dell’educatore era sostanzialmente finalizzato a
salvaguardare la libertà e la spontaneità del processo formativo, ma paradossalmente il processo formativo si rivelava non-libero perché vincolato a una natura stabile e fissa. Nel caso della formazione, invece, non si presuppone alcuna fissità nell’educando, non si presuppone alcuna natura stabile e precostituita, ma si ritiene che la formazione debba essere ricevuta dall’esterno, a partire da un decisore estrinseco. L’esito, qui, è allora inverso a quanto accadeva nel fenomeno ‘educazione’. Paradossalmente, però, il risultato è quasi lo stesso: si pensa l’educazione come la realizzazione di una forma determinata. In entrambi i casi l’educazione e la formazione si manifestano come la costruzione di una fissità. Si tratta di una costruzione totalitaria e artificiale dell’individuo. Questo dicono le parole di cui ci serviamo. Ma è questo quello che noi pensiamo quando pensiamo un processo autentico di formazione dell’individuo? Probabilmente no.
Il punto è allora che la formazione dell’individuo non riguarda né la salvaguardia maieutica di una natura precostituita (come accade nel caso della parola educazione), né l’attribuzione di una forma
a una personalità o a una individualità informe (come accade nel caso della parola formazione). Non possiamo concedere che il destino dell’individuo sia vincolato a priori (alla natura) o a
posteriori (al formatore), e che non vi sia in fondo spontaneità, libera creazione. L’educazione/formazione dell’individuo sembra invece più vicina a quello che definiremmo una ‘scoperta’.
Ecco: la scoperta è sempre la scoperta che ciascuno fa per sé, è la conoscenza che acquisisco dando io, a me stesso, una forma, e dandomela spontaneamente. Dire che l’individuo si costruisce
‘scoprendo’ significa che egli non ha un’essenza predefinita, perché la costruisce appunto conoscendo e scoprendo, e in base a ciò che conosce e scopre. Formare un individuo significa permettere che scopra. Permettere che scopra ciò che lo circonda e, ciò facendo, che scopra se stesso. Storicamente la costruzione del sé, dell’individuo, come ‘scoperta’ ha un nome preciso: conoscenza.
La formazione dell’individuo è dunque una questione di conoscenza. E la conoscenza si lascia pensare come cooperazione, come tendenza, come meraviglia, come desiderio. È la conoscenza che dice in fondo chi siamo; non la forma o la natura umana. E la cosa interessante è che siccome ciascuno tende indefinitamente al sapere in realtà la nostra conoscenza ci dice sempre quello che saremo, non quello che già siamo. Ecco: è un punto capitale, questo. Bisognerebbe formulare una pedagogia che tenga presente il peculiare ‘processo’ che è l’individuo, e che riesca a supportare l’individuo nella sua tendenza indefinita alla conoscenza. Serve allora una pedagogia dell’interesse, che renda coscienti del fatto che l’individuo è un processo futuribile e che lo sostenga tenendo viva in lui la passione della scoperta, la tensione alla conoscenza, l’attenzione al fatto che saremo sempre quello che conosciamo e che ci piace. Si capisce allora che, nella formazione, non si tratta mai di fornire il massimo delle competenze, la totalità delle capacità, la compiutezza delle nozioni. Ma cosa dovremmo fare, allora, noi formatori? Abdicare e non insegnare? No: questo mai. Dovremmo abolire nozioni e competenze? No: questo mai. Forse, però, dovremmo pensare che tutto quello che già facciamo non vale per se stesso, ma per quanto contribuisce alla costruzione, nell’altro, del proprio sé.
La sfida per noi – educatori, dirigenti, società – è forse questa: sostenere quella costruzione dell’individuo, del sé, che la conoscenza, sola, può assicurare.
Prof. Francesco Marrone
Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Bari
Aldo Moro